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Vini rari di Calabria, una storia di passione “sartoriale”

Vini rari di Calabria, una storia di passione “sartoriale”

Basta salire per qualche chilometro sulla strada che da Cosenza porta in Sila, lasciare quella principale per avviarsi tra le colline che guardano a ponente, ai tramonti tra la confluenza di Crati e Busento e, molto più in là, al monte Cocuzzo e la catena costiera che separa dal mare. Quelli che appaiono sono i primi contrafforti della Presila, costellati da tanti piccoli borghi come ad esempio Zumpano, Lappano e Rovito.

Le campagne di questa zona sono incredibili perché – superata qualche curva e percorrendo piccole strade interpoderali – svelano sorprese veramente belle. È il percorso che ho fatto cercando su Maps – proprio nell’area di Rovito – la “Tenuta del Travale”. Leggendo dei vini di nicchia che si producono in Calabria, mi aveva molto incuriosito la storia dei produttori, e anche il fatto che i loro vini avessero ricevuto una quantità di riconoscimenti di peso. Consapevole che nel settore, soprattutto per i vini Calabresi, non è un fatto troppo frequente, ho chiesto di incontrare la famiglia Piluso che ne produce, e farmi raccontare. Ad aspettarmi è Raffaella Ciardullo, che insieme al marito Nicola e alle due figlie Carlotta e Matilde, si occupa dei vigneti e della cantina.

In questa foto, in alto a sinistra, Raffaella, che eleggo vestale/vignaiola di quel luogo. A lei rivolgo le mie curiosità; viene facile perché è una bella mora, il suo sorriso è solare che fa il paio con i suoi occhi ridenti, intensi e neri esattamente come due chicchi di nerello. Già a guardarsi intorno ci si stupisce. Sapete come sono quei luoghi in cui si arriva e si dice: “mi fermerei per sempre qui”? Questa è la prima cosa che mi viene in mente.

La Tenuta del Travale è un posto semplice. Una casa con una terrazza ampia, la piccola (perché È piccola!) cantina, due cavalli dolcissimi che sono mamma e figlia, un pony, due grandi meravigliosi e coccolosi cani, una quantità di gatti sornioni, alberi da frutto, fiori a profusione. E pace.

Appena a un passo, tutt’intorno, sui clivi semicircolari  – come fossero platea di un antico teatro greco o romano – si aprono alla vista i filari verdi e carichi di grappoli scuri, quasi pronti per la vendemmia. Alle spalle, a protezione naturale, la vegetazione mista di ulivi, querce, faggi e castagni, lecci, fichi d’India ed erbe aromatiche che connota la fascia presilana.  Siamo a 520 metri di altitudine.

In Calabria la viticoltura eroica è consuetudine antica, la si scorge in diverse località, ognuna con peculiarità ben precise. Quella della Tenuta del Travale ne è un esempio. È banale, ma perché scegliere di praticarla? «Significa coltivare vigneti in condizioni geografiche impervie e poco accessibili; estremamente difficili, che richiedono un grande impegno manuale e un alto livello di dedizione. È un atto di resilienza e di passione che permette di preservare, però, patrimoni agricoli unici e di produrre vini che raccontano storie di sfida e di devozione. Se noi l’abbiamo scelta è per il desiderio di valorizzare il territorio unico in cui si trova Tenuta del Travale. Riflette, ovviamente, anche l’ambizione di produrre vini di alta qualità che esprimano l’essenza del terroir locale, preservando sempre l’ambiente naturale attraverso pratiche sostenibili. È questo che ci consente di creare vini unici, legati a un contesto territoriale straordinario, con varietali autoctoni rari come il Nerello Mascalese e il Nerello Cappuccio, che qui traggono beneficio dall’altitudine, dalle pendenze ripide e dal clima particolare della Sila, una biosfera Unesco».

Perché la scelta è ricaduta sui vitigni di Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio? «Nicola, mio marito, ha avuto l’illuminante idea di preferire queste due varietà per il primo impianto dei vitigni. Questa scelta però non è arrivata a caso, ma è stata il risultato di un’accurata analisi scientifica che ha preso in considerazione il suolo, il microclima e l’altitudine della zona. L’obiettivo era individuare varietà che potessero esprimere appieno le peculiarità della Sila. Queste due uve autoctone si sono rivelate ideali per essere coltivate qui, e così ci hanno regalato il carattere dei nostri vini unici».

Certo il pensiero va ai famosi mascalesi dell’Etna, ma è ampiamente riconosciuto che il vitigno autoctono è nato, con le prime coltivazioni, proprio nel nord della Calabria. Si è trattato semplicemente di riportarlo a casa e farlo crescere nell’habitat più affine: terra fertile, escursioni termiche efficaci, le correnti in discesa dalla Sila. Persino la neve, quando capita, che imbianca tutto. Data la difficoltà che pone la pendenza del terreno, il vigneto è curato manualmente, con attenzione estrema ad ogni fase, dalla potatura alla vendemmia. La selezione dei grappoli è meticolosa e si scelgono solo i frutti migliori. Sono appena due gli ettari coltivati. Cosa riescono a restituire? «Rispetto alle coltivazioni intensive qui l’accento è sulla qualità e sull’unicità. I nostri vini sono complessi e raffinati, proprio perché puntiamo tutto più sulla qualità, e non sulla quantità».

Stabilire che un vino possa definirsi con carattere di unicità non può derivare né da generiche velleità dei vignaioli, né semplicemente da un legame affettivo con quella terra. Il vino è una cosa seria e l’investimento economico è importante. Fondamentale è la scelta dell’agronomo, così come dell’enologo. Nel caso di Tenuta del Travale, la scelta è ricaduta, nel primo caso, su Stefano Dini; nel secondo, su Emiliano Falsini, un fuoriclasse dell’enologia nel nostro Paese. «È stato scelto grazie alla sua esperienza nella valorizzazione dei vitigni autoctoni e nella vinificazione in contesti territoriali complessi. Falsini ha un approccio che per noi è l’ideale, visto che collima con la nostra filosofia. Punta, infatti, a esaltare le caratteristiche naturali delle uve senza interventi invasivi, riuscendo a far camminare insieme tradizione e innovazione. Il suo metodo prevede una vinificazione con fermentazioni spontanee per mantenere la purezza e la freschezza del frutto. L’elemento distintivo che Falsini ha conferito ai vini di Tenuta del Travale è una straordinaria eleganza e complessità aromatica, con un equilibrio tra freschezza e struttura, che riflette appunto l’unicità del terroir e del microclima della zona. Tutto quello che noi speravamo di ottenere».

Il processo di vinificazione è altamente artigianale, con un approccio che ha ridotto al minimo necessario gli elementi industriali. Tutto inizia con una selezione manuale delle uve, raccolte solo al momento ottimale di maturazione. Dopo la vendemmia, vengono lavorate con metodi tradizionali e poco invasivi. La fermentazione, che utilizza solo i lieviti naturali presenti sulle bucce, avviene in modo spontaneo. Questo processo è proprio uno di quei passaggi che permette al vino di sviluppare il carattere legato al terroir.

Per l’affinamento, estremamente curato e controllato, sono preferiti materiali naturali come botti di rovere di piccola capacità, e il tonneau di castagno, quello degli alberi locali. Perché non un tonneau di un castagno qualunque, ma proprio quello autoctono? «Il castagno è storicamente utilizzato nella nostra regione per la conservazione e l’affinamento dei vini ma, scegliere alberi dai nostri castagneti secolari, significa restare intimamente legati al territorio. I tonneaux che facciamo costruire conservano nella loro essenza la memoria degli aromi e delle caratteristiche della nostra terra, per poi rilasciarli gradualmente nel vino. Anche per questo i vini della Tenuta del Travale sono autentici e profondamente legati al territorio.

Qui, il rovere e il castagno non sono i soli materiali preferiti per l’affinamento. Per la produzione limitata di appena 600 bottiglie numerate dell’Eleuteria (special edition),un rosso scuro, si è scelto di affinare in anfora di cocciopesto per 22 mesi. Si tratta di un materiale lavorato ed essiccato a freddo – peraltro in uso in antichità – che, contribuendo a una micro-ossigenazione delicata, permette al vino di evolversi senza alterare il suo carattere originario. Ne esalta la freschezza e la mineralità, e dona a Eleuteria una complessità aromatica unica, strettamente legata al terroir e alla tradizione della cantina.

Eleuteria è la punta di diamante, ma ci sono poi Esmén Tetra  ed Epicarma. Nomi meravigliosamente evocativi.  «Sono tutti nomi di origine greca. Non sono solo simboli di identità, ma richiamano una storia millenaria in cui il territorio calabrese era una delle culle della civiltà greca antica, con valori di libertà, essenza e creatività che ancora oggi riecheggiano nei nostri vini.Il rosso rubino Eleuteria deriva dal greco ἐλευθερία. Significa, appunto, “libertà” , quella che il territorio calabrese è capace di esprimere in termini di purezza e autenticità del territorio. Poi c’è il rubino luminoso Esmén Tetra. Esmén, che significa “essere” in greco, rappresenta l’essenza della vita. “Tetra” si riferisce invece alle quattro persone della mia famiglia: Carlotta, Matilde, Nicola e me. Il nome incarna l’equilibrio e l’armonia, evocando il legame indissolubile tra passato e presente nella nostra viticoltura eroica. Per il rosato Epicarma, infine, un nome che riflette la creatività e la vivacità, sempre tratto dalla tradizione greca. Inoltre, è un gioco di parole che lega l’identità familiare. Questo rosato di Nerello Cappuccio rispecchia freschezza e vitalità, come quella delle mie giovani figlie».

Tre vini IGP, (quattro, considerando la special edition di Eleuteria) che hanno conquistato in pochi anni –  ne sono passati appena 10 dalla prima bottiglia Eleuteria 2014 – una reputazione straordinaria. Tra i riconoscimenti,  i 5 Grappoli Bibenda e il prestigioso titolo di Vino Raro del Gambero Rosso; i Tre bicchieri Gambero Rosso, il Coupe de Coeur della Guida AIS, e punteggi eccellenti da guide internazionali, tra cui Terroir Sense di Ian D’Agata, uno dei massimi esperti di vino italiano.

Relativamente all’annata, la micro azienda, riesce a produrre una media di circa 10.000 bottiglie. Ma di aumentare le superfici da coltivare e la produzione, non se ne parla. Non è, e non sarà, un progetto della Tenuta del Travale. Anzi: «La scelta di rimanere “piccoli” – spiega Raffaella –  richiama l’idea di quelle micro cantine che producono “mega vini”, concentrati di eccellenza in quantità limitate. Questo approccio si ispira alla filosofia dei vin de garage, dove piccole realtà artigianali, spesso a conduzione familiare come la nostra, riescono a competere con i grandi nomi del settore grazie alla cura meticolosa del dettaglio e alla qualità straordinaria del prodotto».

Restare nelle piccole dimensioni permette alla Tenuta di avere un controllo completo su ogni fase della produzione, dalla cura delle viti alla vinificazione. In questo modo, ogni bottiglia è il risultato di un processo quasi sartoriale. Il fatto di lavorare su una scala ridotta permette di adottare tecniche che non sarebbero sostenibili su larga scala, come la viticoltura eroica e le fermentazioni spontanee, che richiedono un intervento manuale e costante. Inoltre, l’idea di produrre vini esclusivi, veri gioielli enologici, fa parte della mentalità di queste piccole cantine che puntano a creare vini d’eccellenza destinati a un pubblico di intenditori. «Come per i vin de garage, la produzione limitata di Tenuta del Travale non è un limite, ma un punto di forza: si concentra sulla qualità estrema, sull’innovazione radicata nella tradizione, e sulla capacità di esprimere il meglio del terroir in ogni singola bottiglia».

I consumatori di questo raro vino calabrese sono consapevoli, raffinati e appassionati di vini autentici, artigianali e legati al territorio; apprezzano i dettagli e spesso sono intenditori o collezionisti che cercano vini esclusivi e limitati. Il mercato di riferimento è composto da ristoranti ed enoteche di alto livello e consumatori privati che acquistano direttamente dalla cantina. Con sorprese piacevoli, come quando i vini hanno catturato l’attenzione di sommelier internazionali e critici, che li hanno inseriti nelle loro selezioni di vini pregiati.

L’appagamento percepito all’inizio (ricordate? “mi fermerei per sempre qui”) trova evidente conferma nella storia di Raffaella, la mia vestale/vignaiola, e della sua famiglia. Io l’ascolto, percepisco il miracolo che fa Amore, resto in silenzio. È lei che chiude la storia. «La mia terra è un luogo dell’anima, un luogo dove sono diventata pienamente donna e madre. È qui, tra questi filari, che la mia vita si è intrecciata con la natura, in un percorso che mi ha plasmato. È uno sguardo che incrocia un tempo felice, immerso in un bosco rigoglioso, con un respiro a pieni polmoni che sa di felicità e famiglia. Coltivare questa terra significa molto più che seminare o raccogliere. È come richiamare alla vita ciò che dorme sotto la superficie, risvegliando un potenziale antico. Ogni giorno, la terra mostra che le cose non possono essere rimandate: la natura ha i suoi tempi, e non aspetta. È lei a ricordarci costantemente quanto sia importante la pazienza e la dedizione. Prendersi cura delle piante non è solo un lavoro, è una lezione costante, una guida che mi ha trasmesso l’arte dell’attesa, dell’osservazione e della speranza nel bello. Ogni stagione mi invita a scoprire qualcosa di nuovo, a imparare dai suoi ritmi. La terra sussurra il valore dell’umiltà, del sapersi adattare all’imprevisto, a vivere le perdite e a gioire delle vittorie. In questa terra è l’alitare della mia vita che sa di famiglia, di Amore, di un tempo che si rinnova. Ogni passo tra questi filari è una carezza di ricordi e una promessa di futuro».

Di Daniela Malatacca (info@meravigliedicalabria.it)

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