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Tu sei ciò che mangi, a tu per tu con Vito Teti: cosa racconta di noi la tavola calabrese?

Tu sei ciò che mangi, a tu per tu con Vito Teti: cosa racconta di noi la tavola calabrese?

Se la moda è, prima di tutto, l’arte del cambiamento (John Galliano), in una società in continua evoluzione tutte le novità finiscono per diventare mode? Molto spesso sì. E non è soltanto una questione di look, perché sono tanti gli aspetti della nostra vita ad essere influenzati dalle tendenze (nell’ultima decade c’è chi ne ha fatto un mestiere e le università, ormai, lanciano corsi di laurea su come diventare influencer). Dalle foto che scegliamo di mettere sui social alle decisioni in campo ambientale ed ecosostenibile, c’è sempre una brezza che ci trascina verso un pensiero comune. A volte si fa omologazione, a volte è semplicemente essere parte di un momento storico in cui certe cose sono diventate “normali”. E se si tratta di cibo? Da quando i cooking show si sono insinuati nelle nostre cucine, ci sentiamo tutti piccoli Master Chef in dovere di cucinare gourmet e impiattare da stellati. In realtà c’è qualcosa di più profondo perché il cibo non solo influenza il nostro benessere generale ma è lo specchio più autentico delle origini e dell’identità culturale di una persona. “Tu sei ciò che mangi” vuol dire che ogni giorno mettiamo in tavola la nostra storia personale. Allora mi chiedo: se la tavola ci rispecchia, cosa racconta di noi la gastronomia calabrese?

Un melting pot alimentare

Una sola risposta è impossibile perché ci sono sempre delle variabili: periodo storico, aree, luoghi, ceti sociali. Me lo ha raccontato Vito Teti, ordinario di Antropologia Culturale presso l’Università della Calabria dove ha fondato e dirige il Centro di “Antropologie e Letterature del Mediterraneo” e membro del comitato scientifico per la candidatura della cucina italiana a Patrimonio immateriale Unesco: è un calabrese radicato e innamorato della Calabria e nei suoi libri di antropologia dell’alimentazione (“Fine pasto”, “Il cibo che verrà”, “Il colore del cibo”, tanto per citarne alcuni) scava in maniera lucida nelle tradizioni e analizza i cambiamenti in un’ottica di valorizzazione. «L’alimentazione è, per dirla con Marcel Mauss e Roland Barthes, un “fatto sociale totale” ed ha a che fare con la geografia, la produzione, la cultura, gli stili vita e le usanze delle popolazioni. Ha valenze rituali, simboliche, sociali. La “tavola del popolo calabrese” quindi, in un certo senso racconta un melting pot alimentare, una mescolanza di cibi che vengono dall’agricoltura, dalla pastorizia, dal mare, dai traffici e dai commerci e racconta il carattere dinamico, le diversità, la complessità, le contraddizioni (si pensi alla fame del passato e all’abbondanza di oggi) della nostra regione. La cucina, poi, parla della nostra socialità, della convivialità, delle feste, dei rituali, del rapporto col corpo e con gli altri. Insomma, quello che noi mangiamo è anche come ci raccontiamo e ci rappresentiamo. Non si è solo “ciò che si mangia”, ma anche quanto mangiamo, dove, come, quando, con chi».

Cucina globale e pratiche locali

Se i piatti sono frutto di influenze, verrebbe da pensare che, da Nord a Sud, finiremmo per trovare le stesse cose. La diversità della cucina regionale è innegabile in Italia (per quanto, è altrettanto vero che ormai puoi trovare un caciocavallo Silano a Roma e mangiare fregola sarda pure a Pescara), ma se i piatti sono così influenzati da certe tendenze, il futuro ci riserva le stesse pietanze da Nord a Sud? «Sono innegabili omologazione e standardizzazione a livello mondiale», dice ancora Teti.  «La nostra cucina somiglia sempre più a una cucina globale: si pensi alla grande fortuna anche nella nostra regione di piatti “nazionali”, di sushi, dei McDonald’s. Bisogna, però, riconoscere che da noi sono presenti ancora prodotti, ricette, pratiche alimentari locali. Basti pensare alla preparazione di salsa, sottoli, sottaceti, vino. E non è da sottovalutare, non solo dal punto di vista gastronomico, ma anche economico e rituale, la pratica di preparare e conservare le carni di maiale, di fare salumi, di consumare interiora, trippa, o di fare il “morsello” e, nei paesi presilani, di preparare la “cuccìa” o le paste fresche di vario tipo. C’è una notevole e convinta resistenza all’omologazione alimentare e in tante aree interne, che conoscono gravi problemi di spopolamento, sono molti i giovani, i produttori, i “neo-contadini” a riscoprire prodotti e piatti autoctoni, cercando così di ostacolare l’abbandono delle aree interne, dove resiste ancora memoria o usanza di saperi culinari locali. Sarebbe interessante riflettere su questi modi di custodire, innovando, delle tradizioni che possono diventare pratiche di restanza e di resistenza in senso attivo».

L’assai è come il niente

Forse si resiste perché la nostra, in fondo, è una cucina frutto dell’arte di arrangiarsi di contadini e pescatori e questo sentimento, nonostante uno stile di vita nuovo, dinamico e veloce, è ancora radicato nella nostra identità. «Assolutamente. Perché la fame – prosegue Teti -, grande spettro del passato, resta ancora viva nella memoria dei più anziani. È con il boom economico e dagli anni Sessanta del Novecento che dalla fame si passa all’abbondanza e, più di recente, agli eccessi e agli sprechi alimentari. Forse tra il “niente” e l'”assai”, visto che “l’assai è come il niente”, avremmo dovuto scegliere modelli alimentari capaci di superare l’antica fame, ma anche di contrastare una “società ortoressica”. Bisogna ricordare il vecchio insegnamento che mangiare non è solo “ingerire” (magari in abbondanza) cibo, ma è uno stile di vita che deve dare piacere e anche salute».

Mangiatori di nduja: costruttori di autostereotipi

A proposito di piacere, ci sono alcuni piatti della nostra tradizione che raccontano un po’ la Calabria in giro per il mondo. Potrebbe essere motivo di orgoglio e invece, spesso, finiamo vittime del luogo comune. E allora dici Calabria e tutti ci pensano come mangiatori seriali di ‘nduja e preparati piccanti ed elaborati, come se non ci cibassimo d’altro. «Penso che una maniera approssimativa, superficiale e consumistica di promuovere e pubblicizzare i nostri prodotti – dice ancora Vito Teti -, un modo di fare le “sagre” (sganciate da ogni riferimento alla cultura alimentare e proprio “desacralizzate”), restituisce un’immagine parziale e deteriore di una nobile e articolata tradizione alimentare. Se non facciamo altro che presentarci come esclusivi ed eccezionali divoratori di ‘nduja e peperoncino e promuovere come “tipici” della Calabria tali prodotti, è naturale che contribuiamo ad alimentare stereotipi esterni e interni. Alla fine, non di rado, siamo costruttori di autostereotipi. Tanti anni fa ho scritto una “Storia del peperoncino” (Donzelli, 2007) dove ho parlato dell’uso variegato del peperoncino, di un certo amore per il “piccante”, ma ho decostruito l’immagine stereotipata del calabrese mangiatore di peperoncino, come veniva presentata dai comici, dai film, dalla televisione. Trovo incredibile che una terra ricca di ortaggi e frutta, verdure e funghi, di carni e pesce, con prodotti eccezionali come formaggi, salumi e prosciutti, tonno e pesce spada, alici e mille varietà di pesce, agrumi, liquirizia, essenze ed erbe di ogni genere, per non dire dei vini, degli amari, dei gelati, dei dolci – e potrei continuare a lungo -, alla fine dobbiamo essere indicati come consumatori voraci di ‘nduja e peperoncino. Lo dico con dolore perché amo sia la ‘nduja che il peperoncino (anche se ne faccio un uso moderato e occasionale), ma come due elementi di un insieme alimentare articolato e complicato che meriterebbe migliore fortuna». Non si può dare la colpa sempre e solo agli altri, è questa la “morale della tavola” secondo il professore Teti. La gastronomia è un viaggio incredibile e la bussola dovrebbe sempre puntare verso la qualità nel fare e presentare i prodotti nelle zone vocate, nel naturale contesto culturale, insomma. E allora se tu sei ciò che mangi, conviene mettere in carta consapevolezza, tradizione autentica, valorizzazione autoctona e concludere con un dessert di buon senso e amore per la propria terra. Amaro e caffè li offre la casa. Che da noi, da sempre, si fa così.

Rachele Grandinetti

nduja - Meraviglie di Calabria - 10
La ‘nduja
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