Sila Greca. A spasso tra la varietà di sapori nelle terre Jonico-Silane
Un tuffo in montagna: forse si può raccontare così la Sila Greca, quella parte di Calabria in cui mare e monti hanno una sola identità e portano in tavola un menù dalla stessa anima.
Siamo nelle terre Jonico-Silane: è la costa che guarda verso le vette, sono le cime che godono della vista mar Ionio. Si tratta di un’area che si estende sul litorale da Cariati a Corigliano-Rossano (Cs) e si insinua nell’entroterra fino a Longobucco (Cs). In mezzo, un viaggio tra panorami inediti e una cucina di pastori, contadini e pescatori.
La Sila Greca è la sorella “minore” di Sila “grande” e “piccola”, solo per una questione di altitudine. Ma perché Greca? Per via delle influenze culturali che, nei secoli, hanno disegnato il profilo del territorio: qui greci, bizantini, basiliani e albanesi sono stati coloni e fondatori dei centri abitati. Significa tracce ovunque: hai mai visitato, ad esempio, il Complesso monastico basiliano di Santa Maria del Patire a Corigliano-Rossano (Cs)? È di epoca bizantino-normanna, risale all’inizio del XII secolo: intatto, magnifico e immerso nei boschi.
Elogio al Suino
Il tempo, insomma, non ha scalfito gli edifici e nemmeno le tradizioni. Basta metterci il naso: love is in the air e il profumo di carne di maiale pure. È lui il protagonista di molte pietanze nella Sila Greca e non possiamo non iniziare dalla menzione ad honorem al “sacchiattu”. Tipico di Longobucco, è una sorta di zampone e si prepara con la cotenna del maiale (rigorosamente autoctono) ripiena di carne e cucita a mo’ di sacchetto, appunto. Poi il tutto viene cotto e conservato nel grasso delle frittole. Insomma, un elogio al suino. Scarti e frattaglie, in seguito, prenderanno la forma della nnuglia, una salsiccia povera proprio perché – come tutti sanno – del maiale non si butta via niente.
Con la nnuglia spesso si cucina il sugo per i “maccarruni” al ferretto: difficile mettersi a tavola per il pranzo della domenica e non trovarli. Anche la carne di capra e di pecora, in realtà, si presta ai sughi pensati per questa pasta. E non solo. Perché è “rosso” pure “u ranu rattatu”, sarebbe la polenta “terrona” (che sembra un ossimoro ma è il potere del cibo mettere insieme i contrasti!), ovvero grano grattato a scaglie, cotto e poi condito con sugo di carne.
I lievitati
E a proposito di carboidrati, regina della tavola è la strazzata. Hai presente quando porti a casa il pane caldo-caldo e non puoi aspettare che arrivi l’ora di pranzo perché devi per forza tirarne via una nocca? Ecco: il concetto è lo stesso ma si “strappa” un pezzetto dall’impasto e si cuoce in forno per sincerarsi della giusta temperatura. Così, la piccola meraviglia lievita e, una volta sfornata, si condisce come un paninetto (la consistenza è quella della pitta, per intenderci, morbida e con poca mollica) con l’olio extra-vergine (nella Sila Greca, inutile dirlo, tanta parte dell’agricoltura è destinata agli ulivi). La versione più “gourmet” della strazzata è con la sardella. Mai sentito parlare del “caviale calabrese”? Proprio lei! È una sorta di ‘nduja di mare e si prepara con “nannata” (la neonata), peperoncino, sale e semi di finocchio selvatico. Ovviamente, da quando è stata bandita la pesca del novellame di alici e sarde, l’alternativa è il pesce ghiaccio, adulto ma di piccolissime dimensioni. La zona più vocata è Crucoli (siamo in provincia di Crotone) chiamata, non a caso, “la città della sardella”. Venire qui e rinunciare ad una fetta di pane tostato su cui spalmare un cucchiaino di sardella è come andare a Spilinga e rinunciare alla ‘nduja. Piena di fascino – e carboidrati, per restare in tema – è la “pitta ccu maju”, una focaccia con i fiori di sambuco. Si chiama così perché i fiori si raccolgono a maggio (maju), si lasciano essiccare e si poi conservano sott’olio o semplicemente nel congelatore.
Un mare di piccantezza
Sul versante mare, più precisamente a Rossano, sono tipiche le alici scattiate: di’ “scattiate” e sentirai pure tu il friccichìo della padella in cui soffriggono con aglio, peperoncino, origano, sale e un filo di aceto.
Poi, in barba al maiale, c’è tutta una tradizione vegetale che vede ciambotte di pomodori verdi, olive, peperoni e finocchietto da consumare fresh o soffritte. E l’agliata: aglio, tanto aglio, insieme ai peperoni secchi, un piatto povero in cui intingere un numero non ben definito di fette di pane.
Pasta fatta in casa, carne di maiale ripiena di maiale cotta nel maiale, creme piccanti e spalmabili, pesci… cosa manca? Mia nonna, originaria della Sila grande (restiamo più o meno in zona), diceva sempre: “Mangia chiru ca vu’ e lassa a vucca a casu”, ovvero “mangia quello che vuoi ma lascia per ultimo il gusto al formaggio”. Nemmeno la Sila Greca si smentisce quanto a prodotti caseari: ricotte, pecorini e butirri (conosci il butirro? È un formaggio a pasta filata simile al caciocavallo con un cuore di burro) chiudono i pasti e preparano il palato al dolce. Perché, per quello, c’è posto pure dopo u sacchiattu.
Il finale più dolce
Gli squaratielli o fritti al vento sono ciambelline di acqua, farina e olio ricoperte di zucchero, insomma la versione casereccia e più light delle krapfen da mangiare in spiaggia. A Mandatoriccio, poi, è tipico il “manicotto”, prodotto a Denominazione Comunale di Origine: si chiama così perché viene letteralmente avvolto nelle mani e fritto. Appartiene alla tradizione natalizia ma si prepara spesso in altre grandi occasioni ed è un impasto che finirà per profumare di vermouth, cannella e chiodi di garofano.
Manca l’ammazzacaffè. La casa, si fa per dire, propone liquore al piretto (piccolo agrume, cugino del cedro e del limone) e l’acqua di Macrocioli, una grappa che sfida la resistenza all’alcol e strizza ironicamente l’occhio al torrente di Longobucco.
Non resta che una passeggiata digestiva a respirare l’aria più pulita d’Europa, in mezzo ai boschi e sulle tracce di un passato che ha reso la Sila non soltanto grande, ma pure piccola. E Greca.
di Rachele Grandinetti
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