Sangiovese: l’uva è figlia della Calabria

Se dico vino calabrese a cosa pensi? La maggior parte delle persone ha già premuto sul tasto rewind e riavvolto il nastro fino alla Magna Grecia perché l’antica Enotria è sempre tappa obbligata in questo viaggio. È lo specchietto retrovisore per non dimenticare cosa ci siamo lasciati alle spalle adesso che, armati di bottiglie, andiamo alla conquista delle tavole per raccontare una Storia enologica con la maiuscola. Quando si parla di Made in Italy la mente vola verso i giganti che, da sempre, fanno da traino a tutto il comparto vitivinicolo: Prosecco, Chianti, Barolo, Amarone sono nomi che fanno girare la testa anche dall’altra parte del mondo, e non solo per la gradazione alcolica. Perché sono delle vere icone, i sex-symbol da scaffale che tutti guardano, sospirano e ci invidiano. E i vini calabresi? Cosa penserebbero gli antichi greci se ci guardassero oggi? È nato tutto qui e adesso nemmeno un ruolo da protagonista?
Spazio ai vitigni autoctoni
Dalle nostre parti, alti e bassi perché per lungo tempo, eccezion fatta per le storiche realtà di Cirò, le etichette calabresi non hanno combattuto in prima linea sulle carte dei vini, a cominciare dalla nostra regione. Nemo profeta in patria, insomma. Poi un cambio di rotta e un colpo di acceleratore da quando l’attenzione si è concentrata sul ritorno all’autoctono e sulla valorizzazione delle nostre uve dedicando sempre meno tempo a quegli internazionali che hanno permesso di “tirare avanti” perché si coltivano un po’ dappertutto e hanno successo. Adesso Chardonnay, Merlot, Cabernet, tanto per dirne qualcuno, non mancano in vigna per finire nei blend ma fanno più da spalla che da prima donna. C’è una nuova generazione di viticoltori che sta definendo un nuovo profilo dell’enologia locale e lo fa sempre più spesso nel segno dell’ecosostenibilità: non sono produzioni a sei zeri ma la qualità è un crescendo, musica per le orecchie degli enoturisti. Così, Greco Bianco, Gaglioppo, Magliocco giocano ormai ad armi pari con i più rinomati cugini italiani.


Enotria, culla dei vini
Mi sorprende lo stupore di chi degusta per la prima volta, quasi non si aspettasse che “anche” qui si producono buoni vini. È lì che diventa necessario raccontare questa storia, della serie: “Ma hai capito con chi stai parlando?!”. Ecco, stai parlando con chi ha dato i natali ai vini più importanti del mondo. E non basta dire che la Magna Grecia è stata la culla dell’enologia perché finisce per diventare un luogo comune invece che un punto di forza. E se dicessi che il Sangiovese nasce in Calabria?
Tanto per intenderci, dalle uve Sangiovese si producono il Chianti, il Morellino di Scansano, il Brunello di Montalcino: paese che vai nome che trovi perché, nei vari territori in cui viene coltivata, l’uva prende un nome diverso. Ma sempre di Sangiovese si tratta. In Italia distinguiamo il Sangiovese toscano da quello romagnolo: due storie completamente diverse, a cominciare dalla trama tannica. Ma quando inizia questa storia? Molto tempo fa e viene pure da molto lontano perché analisi di Dna hanno dimostrato una componente calabrese nel Sangiovese. Me lo ha raccontato Beppe Sangiorgi, intellettuale e giornalista del ravennate che da oltre trent’anni si dedica allo studio e alla scrittura di questa realtà e lo fa a partire dalle parole, perché tra i sinonimi di “Sangiovese” si trova, seppur raramente, “Sangineto”, nome del paese sulla costa tirrenica cosentina, e noi sappiamo che storicamente vini e vitigni prendevano il nome proprio dal luogo di provenienza. È qui che scende in campo la Calabria.


Da Sangineto all’appennino tosco-romagnolo
Ma facciamo un passo indietro insieme alle parole di uno studio di Sangiorgi: “nel 1284 Ruggero di Sangineto pose l’assedio a Scalea. Filippo di Sangineto, figlio di Ruggero, nel 1328 fu nominato dal Duca di Calabria suo vicario in Toscana e successivamente Gran Siniscalco di Provenza. Quest’ultimo durante il suo soggiorno toscano favorì scambi di diversa natura tra la sua terra di origine e i luoghi posti sotto il suo potere. In scritti toscani contemporanei e dei secoli seguenti Filippo di Sangineto è citato anche come de Sangioneto, de Sanginetto e Sanguineto. È pertanto probabile che un vitigno proveniente dalla Calabria, sia salito dalla Toscana sui gioghi dell’Appennino con una denominazione che rimandava a Sangineto come luogo di origine e da lì sia poi sceso in Romagna e in Toscana con un nome che, pur rifacendosi all’antico termine, ne connotava nella seconda parte i luoghi da cui proveniva, cioè i gioghi (da qui Sangiogheto, Sanzoveto e Sangioveto in Toscana e Sangiovese in Romagna). Cosicché gli abitanti della Romagna se scrivevano a Firenze indicavano “Sangioveto”, mentre in ambito romagnolo prevaleva per lo stesso vitigno il termine “Sangiovese”, che in Toscana appare solo verso la fine dell’Ottocento. Perciò il nome Sangiovese è romagnolo e in particolare dell’area appenninica faentina-imolese”.
Oggi diverse cantine calabresi coltivano Sangiovese che spesso finisce nei blend, pochissimi lo producono in purezza.
Sembra di rivedere tutti quei calabresi che, oltre un secolo fa, hanno lasciato la propria terra: tutti i calabresi che continuano a farlo, in realtà. Sembra di vedere il Sangiovese partire per fare fortuna altrove. Anche lui ci è riuscito: è diventato grande nel mondo ma è figlio di questa terra e la Calabria è una mamma orgogliosa che brinda alla sua salute.
di Rachele Grandinetti
info@meravigliedicalabria.it
Foto di copertina di @consorziovinidiromagna