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Le conserve fatte in casa, un affare di famiglia – FOTO E VIDEO

Le conserve fatte in casa, un affare di famiglia – FOTO E VIDEO

Mica era poi così semplice. Si andava anche per diversi giorni consecutivi a parlare con quel signore al mercato. L’anno prima era stato lui ad aver venduto quelli buoni. Serviva a garantirsi la partita migliore, e ad un prezzo soprattutto accettabile. C’era anche un po’ di nervosismo, solitamente. Stabilire la data e l’ora di consegna, che sarebbe avvenuta nella tarda serata.
Poco prima dell’ora di cena, infatti, si sentiva tutto il fracasso che, quasi quasi, si poteva pensare che quell’Ape Piaggio, già datata di suo, si sarebbe ridotta in pezzi, così come il carico che portava. Da tre a quattro quintali di roba, a volte cinque, depositata poi davanti alla porta che dava in giardino.  Intanto le grandi tinozze, i tavoli, le spianatoie da bloccare tra due sedie, i coltelli, gli stracci, le bottiglie con il collo stretto (quelle con il collo largo non erano forse neanche in commercio) i catini per mettere gli scarti. Bisognava preparare gli spazi per lavorare, insomma. Si riposava poco in realtà. Un po’ di tensione, ancora, perché le cose da fare erano tante e, soprattutto, da smaltire in una sola giornata.

Il (quasi) laboratorio narcos

Alle due di notte potevano cominciare le grandi manovre. La famiglia, di solito numerosa, era già operativa. Solo i più piccoli restavano a dormire perché, nelle prime fasi, sarebbero stati da intralcio. Quasi un clima da laboratorio narcos. Come su un palcoscenico che si anima, ognuno prendeva il proprio posto, ognuno col suo compito ben preciso. Era così che iniziava per tanti il rito della conserva di pomodoro. Tra fine agosto e la prima quindicina di settembre, non c’era famiglia in Calabria che non si dedicasse alle attività che servivano a colmare la dispensa. Che doveva essere assolutamente piena, fino all’estate successiva. Sì, un rito, perché ogni gesto sembrava avere solennità, e quel lavoro doveva essere benedetto perché si faceva per sfamare la famiglia. È perché potesse restituire la passata migliore di sempre.

L’importanza dei “nasi”

In due si procedeva al lavaggio accurato, e i primi grandi colapasta bianchi, celesti, o verdi arrivavano sui tavoli carichi dei pomodori rossi e turgidi. C’era innanzitutto da selezionare: quelli che servivano per la passata, altri da pelare e quelli da tagliare a filetti (destinati soprattutto alla pizzaiola che avrebbe profumato la cucina nelle sere d’inverno). Bisognava essere specializzati per prendere parte al rito: buona vista e soprattutto olfatto fine. Dei “nasi” migliori, infatti, era il compito di individuare il minimo sentore di acidità, che peraltro poteva nascondersi anche all’interno di un frutto (perché il pomodoro lo è) di aspetto sanissimo. È così che la punta del naso diventava “lustra e paonazza”, esattamente come quella di Mastro Ciliegia, nel Pinocchio di Collodi.
La parte di lavoro più “ardita”, soprattutto per i bambini, era sfidare il collo stretto e lungo delle bottiglie di vetro verde o marrone. Oltre ai ciuffi di basilico che dovevano passare da là come il cammello dalla cruna dell’ago, l’impresa era far cadere lì dentro a uno a uno i filetti di pomodoro. Dovevano entrare precisi e perfetti, senza difficoltà: guai a spappolarli! Un’operazione delicata dietro l’altra per questa particolare “sezione di produzione”: all’interno della bottiglia nessuna bolla d’aria doveva formarsi. E così si riempiva un poco, poi si batteva il suo fondo su uno straccio fatto a mo’ di ciambella, e si tornava a rimpinzare quella pancia di vetro, senza dimenticare un altro po’ di basilico.

Il fuoco e la “quadara”

Nel frattempo si preparava la ‘quadara’ (il calderone) fatta di rame e, all’interno, di stagno. Faceva di solito parte del corredo della sposa e si utilizzava anche per cuocere le parti grasse del maiale in inverno. Se il rivestimento interno col tempo decadeva, si doveva ricorrere alla stagnatura e il pentolone tornava come nuovo. Quando era pieno, almeno per metà, del pomodoro succoso tagliato a pezzettoni, si  posava sul treppiedi circolare piazzato sul fuoco acceso con la legna, ovviamente. Delle bombole a gas e di treppiedi col bruciatore, tra la fine degli anni ’60 e metà dei ’70, non se ne parlava: chi aveva spazio per lavorare i pomodori fuori casa, in cortile, in giardino o in campagna, si affidava al fuoco. E c’era pure un perché.

La musica che nessuno ha scritto ancora

Una macchina perfetta dalla meccanica semplice, come quella di una locomotiva a vapore: tra i rivoli d’acqua che scorrevano dappertutto, il suono della lama di coltello sul legno, il tintinnio del vetro, quello ovattato e un po’ metallico dei tappi dei barattoli, il tonfo dei fondi di bottiglia battuti sugli stracci, il ritmo delicato del grande cucchiaio di legno che rimestava, e quello ripetitivo della macchinetta per macinare a mano. E poi il crepitio del fuoco, i calabroni come aerei da caccia e il ronzio folle delle vespe. Il vociare dei ragazzini, il richiamo delle madri e le ciabatte lanciate appresso, le chiacchiere e le risate, a volte pure qualche pianto, il fischiettio di soddisfazione per il buon lavoro. Una musica. Chissà se qualcuno l’ha mai scritta. C’era il profumo dell’estate, perché, se la stagione ne ha uno, è quello del basilico e dei pomodori appena raccolti. C’erano i colori accesi, e i sapori di ortaggi e di frutti succosi e freschi per dissetare. L’anguria tricolore su tutti, semini a parte ovviamente.  Quando bottiglie e barattoli terminavano di tremolare nel bollore all’interno del fusto annerito dal fuoco, il lavoro poteva considerarsi quasi finito. Di togliere la preziosa passata in vetro dall’acqua bollente, se ne sarebbe parlato al mattino dopo. Solo allora gli spazi puliti e ordinati dei ripostigli si sarebbero riempiti della scorta rossa.

La fatica ripagata

Del fuoco e del suo perché. Prima che la fiamma si spegnesse del tutto restava la brace che, nell’economia generale delle risorse, era utile eccome. Quello era il tempo di approfittare della conserva collaterale del momento: i peperoni arrostiti da consumare nel resto dell’anno. Quando la natura seguiva il ciclo delle stagioni, nessuno mai avrebbe potuto trovarli al supermercato, per esempio, a gennaio. Il regalo per i più piccoli erano le patate cotte alla brace, e che sapore poi con un po’ di sale e un filo d’olio. E la sera la cena, con un piatto di pasta abbondante, ricco della salsa fresca di giornata. Ché dava una felicità piena, ché dava il senso delle cose fatte in famiglia e per la famiglia. Così, tutta quella fatica veniva ripagata.

Anche se con numeri lontani rispetto ad anni fa, nel Sud Italia – particolarmente in Calabria – il rito della conserva di pomodoro è certamente meno macchinoso di allora. Per quanto tempo ancora accadrà, viene da chiedersi. Certo non si torna indietro se abbiamo il vantaggio di attingere dagli scaffali del supermercato, dove di passate, per carità, se ne trovano anche di molto buone a Km 0. Ma in questo periodo è facile ammalarsi di nostalgia, e con stupore guardiamo ancora a chi le conserve ostinatamente le fa, e le farà.  

di Daniela Malatacca (info@meravigliedicalabria.it)

Il video della preparazione della salsa in Calabria
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