La cattura del brigante Musolino
I quotidiani del 17 ottobre del 1901 riportano la notizia: Il giustiziere d’Aspromonte Giuseppe Musolino è stato arrestato, lo Stato ha vinto. L’arresto avvenne (per un caso) nelle campagne di Acqualagna, presso Urbino, sede di servizio del giovane carabiniere Amerigo Feliziani, che così annotava nel suo taccuino:
«… era il pomeriggio del 9 ottobre 1901, il brigadiere mi comandò di perlustrare insieme con il commilitone La Serra Antonio un area a ridosso della contrada Farneta con lo scopo preciso di rintracciare gli autori di un sanguinoso delitto che aveva aspramente amareggiato i nostri animi: l’uccisione del giovane carabiniere Michele Viviani in una campagna nella provincia di
Pesaro, compiuta non si sa da chi, ma attribuita a dei girovaghi. Ad un certo punto, in un terreno coltivato, vedemmo un individuo che dal modo come si aggirava, destò in noi qualche sospetto. Il mio compagno ed io ci guardammo in viso: – che sia uno degli assassini del nostro commilitone? – E ci dirigemmo verso di lui. Si trattava di un giovanotto aitante, robusto, elastico. Dopo averci scortolo sconosciuto volle simulare una perfetta indifferenza e ece come per venirci incontro. Poi ad un certo punto se ne andò verso una casa colonica. Si radicò allora in noi la convinzione che si trattava di un latitante. Piombammo nel casolare: i l collega La Serra rimase sulla strada ed io saliidi sopra. L’individuo nessuno lo conosceva, non era entrato, ma soltanto passato vicino sfiorando una donna che gli sentì dire, come parlando a se stesso: “Sono carabinieri”. In quel mentre guardando fuori dalla finestra mi accorsi che egli si trovava ad un trecento metri di distanza e camminava in direzione di una collinetta evidentemente per nascondersi. Ritornai in strada ed immaginando che il misterioso individuo avrebbe preso il sentiero campestre che fiancheggiava la strada, ci dirigemmo su questo per incontrarlo sulla direzione opposta. Il mio collega non poteva correre a causa di una recente convalescenza. Fu così che io lo lasciai indietro per tema che la preda sfuggisse. Scavalcata la collinetta mi trovai vis a vis con il giovane a pochi metri di distanza. Questi cercando di mascherare il suo turbamento fingeva di volermi passare accanto, ma io gli intimai di fermarsi. Egli si arrestò un istante perplesso e poi si dette alla fuga. Io perdetti il lume degli occhi, sicuro di aver rintracciato l’assassino del nostro commilitone. Mi detti ad inseguirlo, e quando gli ero già a cinque o sei metri lo vedo cadere. Aveva inciampato sul filo metallico di una vigna, inciampo anch’io e gli sono sopra come un bolide, lo afferro con una mano per il collo e con l’altra per il braccio destro e con le ginocchia lo premo sull’addome con tutte le forze dei miei ventiquattro anni centuplicate dal desiderio di vendicare il mio povero commilitone di Pesaro. Lo sconosciuto si divincola e cado anch’io; ci dibattiamo tra le zolle, ma non lascio neppure per un attimo la preda. Riesce ad impugnare la rivoltella con la sinistra e cerca di alzarsi. Io sdrucciolo, ma fortunatamente lo afferro per le gambe ed egli è di nuovo con me a terra. Lo abbraccio e riesco ad afferrarlo con i denti all’orecchio destro. Frattanto giunge l’altro milite. In due dopo una lotta disperata, ma in cui avemmo sempre il sopravvento, riuscimmo a ridurlo all’impotenza. Allora egli divenne cortese e supplicò di non mettergli le catenelle perché era un galantuomo e che non aveva nulla a che fare con la Giustizia, tentò di offrirci 250 lire in cambio della sua libertà. Naturalmente gli vennero messe le catenelle e lo perquisimmo. Era in possesso di una rivoltella, di un pugnale a serramanico lungo venti centimetri, di alcuni sigari e di una ciocca di capelli grigi che poi sapemmo appartenere alla zia Filastò, alla quale era particolarmente affezionato. Indossava calzoni color caffè, giacca scura alla cacciatora e berretto: al collo un fazzoletto affumicato per il lungo viaggio in ferrovia. Aveva inoltre un cappello a cencio per cambiarsi d’aspetto ed un foglietto stampato con la Passione di Gesù con la scritta: chi porterà sempre con sé questa devozione non morrà di morte violenta…»
Giuseppe Musolino, interrogato il 22 di ottobre del 1901, veniva trasferito con un treno speciale nelle carceri di Catanzaro. Per la cattura del Brigante d’Aspromonte – come riportato su ‘La Tribuna Illustrata’ del 27 ottobre 1901 – lo stato spese circa un milione: «Si presume che le spese complessive, per la dislocazione delle truppe negli Abruzzi – che come è noto nell’inverno scorso raggiungevano quasi due reggimenti – abbiano toccato le 500.000 lire, e a queste aggiungendo le altre spese ingenti per lo spionaggio, per gli arresti numerosi e per tutte le misure di P.S., si verrebbe a raggiungere e forse a sorpassare la somma tonda di un milione. Nessun galantuomo ha mai costato tanto al Governo!».
Il processo presso la Corte d’Assise di Lucca, ha inizio il 14 aprile del 1902 e la stampa seguirà tutte le udienze. Musolino sarà difeso da due avvocati, tra i migliori di quel tempo e chiede di non vestire gli abiti da carcerato: «Ho un abito da sedici lire il metro, e lo voglio indossare! Io sono un uomo storico e non un delinquente qualunque bisogna perciò usarmi riguardo!». Durante il processo Musolino si difende così: «Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Eppoi, vedete, io non sono calabrese, ma di sangue nobile di un principe di Francia. Chi condannate? Un cadavere, perché io posso avere cinque o sei mesi di vita al più!»
La sentenza sarà emanata tre mesi dopo, l’11 luglio, alle 21.00: Carcere a vita e otto anni di isolamento, nonostante non più in grado di intendere e di volere: «La lunga latitanza, le fughe, gli agguati, i tranelli, i sospetti lo hanno portato alla psicosi». Il primo agosto veniva tradotto nel carcere di Portolongone all’isola d’Elba, nel mese di settembre del 1912 veniva trasferito a Santo Stefano di Ventotene, isolotto nel Mar Tirreno tra Ponza e Ischia, il 22 gennaio 1916, internato nell’ospedale criminale di Reggio Emilia. Nel 1946 gli veniva riconosciuta l’infermità mentale e il 12 agosto di quell’anno, veniva trasferito al manicomio di Reggio Calabria dove morirà il 22 gennaio del 1956. Il mito del brigante Musolino non tramonterà con la sua morte. La storia del calabrese, considerato dalla parte dei deboli e contro la prepotenza dei più forti, continua a correre.