Grani antichi in Calabria: la storia rivive in mezzo ai campi

Se dico “mulino” a cosa pensi? Io alle pubblicità con la famigliola riunita intorno al tavolo di prima mattina felice di vivere mentre scarta brioscine confezionate, penso a Mykonos, a Don Chisciotte. E pure alla Calabria. Sapevi che ci sono 1970 mulini ad acqua sparsi su tutto il territorio? Soltanto pochi, però, sono ancora in funzione e compiono la magia: perché c’è qualcosa di magico nella lavorazione del grano. È l’oro giallo di questi campi e, dalla notte dei tempi, rappresenta la base dell’agricoltura e della nostra alimentazione. Le spighe di grano sono un racconto a cielo aperto pieno di significato: è la vita che rinasce nel seme che muore. Cariche di chicchi e pure di simbolismo. Abbondanza, gratitudine, resurrezione, fertilità, nutrimento: quanti significati ha il grano? Infiniti, credo. Già nella Bibbia lo troviamo come dono divino e alimento per l’anima o tra le pagine della mitologia da Demetra a Osiride. E poi, chi non ha mai ricevuto come bomboniera una cornucopia traboccante di spighe?


La farina più antica del mondo
È un po’ come la canzoncina che s’insegna ai bambini “Ci vuole un fiore” perché per fare un tavolo ci vuole il legno e per fare il legno ci vuole l’albero (la stai canticchiando?!): per fare il pane ci vuole la farina e per fare la farina ci vuole il grano. Ma quale farina? E, soprattutto, quale grano? Pare che la farina più antica del mondo abbia 32mila anni: era di avena ed è stata macinata dall’Homo Sapiens in una grotta del Gargano. Vuol dire che coltiviamo e maciniamo da sempre: vuol dire che, nonostante mode e trasformazioni, certe cose continueranno ad esistere. Anche se in questi anni Venti si hanno fin troppi… grilli per la testa che finiscono per diventare farina. Ed è paradossale come, adesso, si battano sugli scaffali ad armi pari il passato con il futuro. Perché mentre alcuni si arrovellano nel tentativo di offrire al mercato cose inedite e avveniristiche, qualcun altro torna indietro, ai sapori e alle buone pratiche di un tempo, soprattutto in una terra in cui grano, vino e olio rappresentano quei marcatori identitari capaci di raccontare centinaia di anni di storia tra due mari.

La mietitura del grano il ritorno del rito
Non a caso c’è chi, proprio in questi giorni, ha dato l’opportunità di fare un’esperienza lontana nello spazio e nel tempo: la mietitura del grano a mano. Nella Sila Greca, ad esempio, una cooperativa sociale ha chiamato le persone a raccolta – è il caso di dirlo – per rivivere insieme il rituale delle tradizioni contadine. È una delle zone in Calabria che ha lavorato, in chiave moderna, per il recupero dei grani cosiddetti “antichi”. Negli anni Settanta il settore ha visto un cambio di passo nato dalla necessità di fornire all’industria alimentare farine forti che consentissero lavorazioni più veloci e, dunque, impasti rapidamente panificabili. In breve tempo, le specie antiche sono state abbandonate favorendo queste varietà. È un copione già visto, d’altronde: i tempi cambiano e serve adeguarsi per sopravvivere. Ma c’è una differenza tra il tempo che corre e quello che scorre: al secondo, non devi starci dietro e batterlo. Allora c’è differenza pure tra il grano “industriale” e i grani antichi: non hanno mai subito mutazioni genetiche e preservano, perciò, le proprietà nutrizionali originali. E poi la macinazione è realizzata con metodo tradizionale, quindi lentamente e a pietra naturale, per tutelare la qualità del prodotto.
Piccolo e necessario promemoria: la farina è frutto di macinazione e non di raffinazione che è, invece, un processo chimico (come quello dello zucchero, ad esempio). Vuol dire che nasce naturale e resta un alimento completamente naturale.
Grani storici calabresi
In questi anni, da Nord a Sud, dall’altopiano della Sila all’Aspromonte, è stata gettata nuova luce sui grani antichi storici calabresi Senatore Cappelli, Verna, Farro, Iermano, Maiorca, Rubeum: erano personaggi in cerca d’autore e oggi sono protagonisti di un nuovo Rinascimento che sa raccontare una terra e la mano di chi la coltiva. Non solo. Perché “recupero” vuol dire pure omaggio alla biodiversità dal momento che si lavora nel segno della sostenibilità grazie ad un’agricoltura che mira a rese basse e ad una filosofia non interventista.
Si dice che si ha nostalgia delle cose non vissute (io sono una Millennial ma dico sempre che mi sarebbe piaciuto essere stata adolescente negli anni Sessanta). Sicuramente si ha spesso nostalgia di ieri perché “una volta era meglio”. Non so nella vita, ma nei campi è una grande verità. E non c’è innovazione che tenga perché i nostri prodotti non meritano il passato: un presente è sempre possibile quando si torna, per la propria terra, alle tradizioni e alle buone pratiche. Buone come il pane.


di Rachele Grandinetti
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