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Giorgio Mastrota e la cultura arbëreshë: calabresità è un ritorno alle origini

Giorgio Mastrota e la cultura arbëreshë: calabresità è un ritorno alle origini

Pomeriggio di maggio, interno giorno, le vetrate dell’aula convegni del Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria che danno sullo Stretto di Messina, un tavolo sistemato con microfoni e bottiglie d’acqua, poltroncine rosse vuote pronte a farsi platea. Sono saliti su questo “palco” Giorgio Mastrota e Le Donne del Vino di Calabria, come personaggi in cerca d’autore. Ma non c’è stata incomunicabilità, anzi: ciascuno ha portato una storia, un momento di vita, un progetto e un’emozione. Soprattutto, i nostri “attori” hanno regalato al pubblico un’interpretazione completamente originale del soggetto: la calabresità.
Perché di questo si è discusso lo scorso 28 maggio in occasione dell’ultimo incontro previsto da Giochiamo d’Anticipo, l’evento-contenitore promosso dal Gruppo Corriere della Calabria insieme all’ateneo reggino per riflettere su prevenzione, salute e sport: talk e dibattiti con rappresentanti delle istituzioni e della Sanità per fare il punto sul sistema. Perché calabresità è ammettere pecche e mancanze, è dimostrare che i numeri sono poco incoraggianti se il 43% dei calabresi sceglie di farsi curare fuori dai confini regionali. Ma calabresità è parlarne, aprire un dialogo, fare luce nella comune volontà di mettere un punto ad un certo tipo di narrazione e scrivere un capitolo fatto di fiducia e organizzazione, ottimizzazione delle risorse e trasparenza della gestione.

Rivivere nel ricordo

Calabresità è anche un biglietto di ritorno a casa, alle origini, ad un passato che non si è mai sbiadito nei ricordi: è Giorgio Mastrota che racconta un percorso all’inverso, all’ingiù, rotolando verso Sud. A dispetto di tanta storia che ci ha abituati a orde di calabresi che, prima per necessità e poi un po’ per scelta, hanno deciso di lasciare paesini e città e risalire lo Stivale (e oltre), il presentatore tv anni fa ha seguito un altro vento che lo ha portato dritto a Civita, borgo arbëreshë (uno dei più Belli d’Italia) in provincia di Cosenza perché suo padre era nato qui e perché qui c’erano tanti ricordi felici. Ma non ha fatto come gli “studenti fuori sede” che “scendono” dalle famiglie per l’estate e le vacanze di Natale: Giorgio ha comprato casa, uno dei suoi figli ci vive e il comune gli ha consegnato le chiavi come cittadino onorario. Adesso la sua vita è una spola tra gli estremi: Bormio (alta Valtellina) e Civita dove, ormai, conosce tutti: “Qui mi sento a casa, ma non è un modo di dire. Io in paese esco e mi fermo a chiacchierare ovunque, davanti al bar, ai ristoranti, in piazza. Ritrovo la mia dimensione e mi ricordo di quando venivo da piccolo. Il fatto che mio figlio, come me, viva la gioia di questo posto è un’emozione grandissima”, ha detto Mastrota. Allora calabresità è anche mantenere limpido il ricordo di chi ci ha lasciati vivendo gli stessi luoghi, lo stesso cielo, la stessa casa.

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Civita-experience: l’accoglienza

Calabresità, poi, è essere diversi ma riconoscersi in una comune identità. Lo testimoniano le comunità arbëreshë (la Calabria è la regione italiana con il maggior numero di comuni albanesi), vere oasi di meraviglia che mantengono intatti riti religiosi, abiti, tradizione gastronomica e lingua. Ed è un paradosso bellissimo sentire parlare un’altra lingua nel proprio paese, perché sono albanesi, perché sono calabresi. Soprattutto, sono testimoni di un senso di orgoglio ed appartenenza.

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Civita è calabresità: un piccolo gioiello di ciottoli e pietra all’interno della riserva naturale Gole del Raganello e nel cuore del Parco Nazionale del Pollino che ha fatto dell’accoglienza un imperativo. Ce lo ha confermato anche il sindaco Alessandro Tocci: 840 abitanti e oltre 30 strutture ricettive danno la misura dell’ospitalità che si spalanca davanti a chi sceglie il borgo all’insegna di una arbëreshë-experience che non lascia mai a bocca asciutta, soprattutto quando l’itinerario prevede una sosta-ristorante. La cucina albanese è un elogio alla semplicità. Lo ha raccontato pure Enzo Filardi, ristoratore ed appassionato di cultura locale: acqua, sale, farina ed erbette spontanee che crescono lungo le pendici del Pollino portano in tavola uno dei piatti più rappresentativi della tradizione. È una gastronomia che viene dalla terra povera, dalla cultura contadina, dalla capacità di arrangiarsi con quello che c’è. Calabresità, in fondo, è nobilitare le cose semplici invece di lamentarsi delle mancanze.

Vino contro la violenza

E poi è tendere una mano. È ciò che ha fatto l’Associazione Donne del Vino di Calabria che, allo stesso tavolo, hanno raccontato il progetto “Korale”, il primo vino contro la violenza di genere realizzato dall’Associazione Nazionale Donne Del Vino, una emozionante limited edition per raccogliere fondi a favore del Centro Antiviolenza Roberta Lanzino di Cosenza. Anche in questo caso, parola d’ordine “prevenzione” attraverso campagne di comunicazione ed educazione sin dalla giovane età: al rispetto di corpi e anime, sensibilità e dignità. Rispetto per l’umanità. Le Donne del Vino di Calabria, capitanate dalla delegata regionale Enza Alessio Librandi, sono sommelier, ristoratrici e produttrici (ne fanno parte le cantine Nesci, Malaspina, Baccellieri, Antonella Lombardo, Lavorata, Lento, Macrì, Casa Comerci, Ceraudo), esempio del fare, attraverso passione, competenza e gesti concreti. Calabresità, duqnue, è scrivere un racconto diverso, avere altri occhi, altre penne, altre ali, è farsi scrigno, custodi e narratori di belle storie da tramandare: calabresità è voglia di lasciare al futuro un passato tutto nuovo.

di Rachele Grandinetti

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