Finché è Natale, noi friggiamo: quando tradizione diventa street-food
“It’s the most wonderful time of the year”. L’hai letta cantando? Le playlist di Natale hanno la parte principale quando si tratta di creare l’atmosfera. Le conosciamo tutti, le conosciamo tutte e mentiremmo sotto mentite spoglie da Grinch se dicessimo che quel sottofondo di cingoli e campanelle non ci mette di buon umore, pure se è rosso sul calendario e stiamo ancora lavorando. Vigilia e giorno dell’Immacolata sono già alle spalle ma ancora possiamo sentirne il profumo. Il fritto è così: resta sui vestiti e sui capelli e potrai lasciare aperta la finestra della cucina per 48 ore pensando, poi, di andare a dormire serenamente, ma l’indomani mattina, quando riaprirai la porta per dirigerti verso la macchinetta del caffè, respirerai ancora olio di semi e un vago ricordo di alici. Fa parte del gioco e non dà fastidio a nessuno. Anzi! Non sarebbe festa senza quella nube di fumo che aleggia sulle case e lungo le strade. Perché se fino ad una manciata di anni fa l’appuntamento veniva rispettato in famiglia, da un po’ di tempo le nostre tipiche fritture sono diventate un vero street-food, alla stregua della pizzetta al taglio, solo con un tovagliolo in più intorno per evitare di ungerti e scottarti le dita. In lungo e in largo per le cinque province calabresi, dalla costa all’entroterra, abbiamo affondato i denti in questa usanza, altrimenti nota come “cuddruriaddri”.
Una ricetta, infiniti nomi
E siamo pronti a farlo ancora visto che il menù Made in Sud non cambia in occasione di tutte le vigilie del tempo di Natale. Vuol dire che ci metteremo a tavola in nome del fritto la vigilia di Natale, di Capodanno e dell’Epifania. Adesso, però, una sosta è doverosa, perché quando si tratta di tradizione non vogliamo che nessuno ce la tocchi, a cominciare dal nome. Parliamo di Calabria e raccontiamo sempre di varietà e diversità che riguardano i paesaggi e le culture, le origini e le abitudini e pure le parole. Infatti, quelli che a Cosenza sono detti cuddruriaddri (e pure qui c’è una piccola, eterna diatriba su chi rinnega la “a” e li chiama “cuddrurieddri”, con la “e”) quando sono a forma di ciambella e “vecchiareddre” quando sono chiusi e ripieni di alici, si chiamano cudduredde o grispelle a Catanzaro, crispedd’ a Crotone, cururicchi o zeppole a Vibo Valentia, zippuli a Reggio Calabria. E to be continued nelle centinaia di paesini in provincia. La ricetta e la magia, però, restano immutate: un impasto sofficissimo di acqua, farina, patate, lievito e sale. Un morso e tutto intorno è Jingle Bells! Per i boomers non esiste altra variante rispetto alle alici. I millennial ai fornelli, invece, spesso sperimentano farciture diverse, dal classico pomodoro e caciocavallo silano a mo’ di panzerotto alla ‘nduja, dai cicoli ai broccoli di rape, dalla rosamarina alla salsiccia. Insomma: tanta Calabria può finire dentro un impasto e poi fare un triplo carpiato in padella (per la gioia di chi, alla fine, dovrà pulire). Nonostante la sinonimia, esiste un’origine comune.
Simbologia al femminile
Non tutte le ciambelle escono col buco ma i cuddruriaddri sì. Ed è per via di questa forma che anticamente venivano infilati nei bastoni di pastori e viandanti per facilitarne il trasporto. Il nome deriva dal greco κολλύρα (kollura), che significa appunto “corona”. Al di là della stretta etimologia, c’è pure un forte richiamo simbolico. Perché la “cuđdùra” si è diffusa anche come “cunnùra”, dal latino “cunnus”, l’organo femminile. Cúnnus o cunnùra era anche il nome di un pane, che aveva proprio la forma compatta del sesso femminile. Quando le donne finivano di impastare la farina, creavano un panetto ovale e segnavano il centro con un colpo della mano da ripassare con un coltello: era il taglio che durante la cottura nel forno si allargava lentamente e s’indorava al centro. Forse, da oggi in poi, non guarderai più ai fritti della tradizione con gli stessi occhi! Ma il cibo è così: non è mai soltanto una faccenda di ingredienti e masticazione. È come dice lo chef tristellato Massimo Bottura: cucinare è respirare il tempo che si vive, trasmetterlo e trasformarlo in bocconi masticabili. Così, ogni impasto e ogni morso si fa storia e memoria e finisce, di generazione in generazione, a riunire persone davanti allo stesso piatto. “Respirare”, poi, è davvero la parola chiave in questi giorni e mettere il naso nell’aria è un po’ il trailer di quello che si scatenerà intorno alla tavola. E finché c’è musica noi balliamo. Finché è Natale noi friggiamo.
Rachele Grandinetti