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I Połëcënellë di Alessandria del Carretto

I Połëcënellë di Alessandria del Carretto

Lontani e quasi irraggiungibili, abitati da comunità ai margini dello sviluppo che custodivano e continuano a farlo un immenso patrimonio immateriale.
Sono i paesi senza strada raccontati da Vittorio de Seta ne “I Dimenticati“, uno dei documentari più importanti dell’antropologia visuale italiana, espressione di quella corrente cinematografica neorealista che ha raccontato, in anticipo, una delle ferite più profonde subite dal Sud Italia, la migrazione imposta dalle privazioni. Vite e storie sradicate a causa del bisogno, comunità segnate da una povertà che colpisce il corpo ma si abbatte inevitabilmente anche sullo spirito.
“I Dimenticati” di Vittorio De Seta sono i cittadini di Alessandria del Carretto, borgo sul versante orientale del Parco Nazionale del Pollino ed unico paese in Italia ad avere per nome quello del suo fondatore. Qui “I Dimenticati” hanno saputo conservare i loro di ricordi prestando attenzione a non perdere alcuni elementi della propria identità.

Il regista De Seta dedica la parte centrale del documentario ad un culto arboreo, quello della Pita, rituale di derivazione pagana ma connesso alla venerazione di Sant’Alessandro.
Altro elemento identitario, il Carnevale che ad Alessandria del Carretto è una festa ricca di elementi simbolici e rituali che hanno resistito all’omologazione che altrove ha invece sfumato, attutito, standardizzato per non dire eliminato molto dei significati originari. Inserito nel circuito dei carnevali antropologici italiani in quello di Alessandria del Carretto due maschere si affermano e permettono agli uomini di fare festa: i Połëcënëllë biëllë e i Połëcënëllë bruttë. I “belli” sono ragazzi vestiti con un pantalone di velluto e una camicia bianchi, l’unica nota di colore è il nero degli stivali. Gambali di cuoio nero uniscono gli stivali ai polpacci, una cintura di cuoio marrone tiene fermo al coccige un campanaccio che risuonerà una volta finita la vestizione, suoni che serviranno ad allontanare il male e segnare lo spazio.

Dalla pancia uno scialle decorato, piegato a triangolo con la punta che pende tra le ginocchia, sulle spalle invece altri scialli colorati e tenuti fermi con le spille. Tessuti, colori e motivi che diventano parte del corpo e con esso danzano. Un fazzoletto protegge il capo, le orecchie e il mento dal peso del cappello che sarà indossato. Il cappelletto parte in forma circolare per poi assottigliarsi in una sorta di rettangolo imperfetto decorato con fiori di plastica, coccarde, nastri, foulard, campanelli e piume, Al centro uno specchio che riflette ciò che vede. L’ultimo passo della vestizione è la scomparsa del volto grazie ad una maschera di legno, liscia e lucente, verniciata di bianco con il candore sulle gote, sopracciglia o piccoli baffi, bocca socchiusa in un sorriso che pare un ghigno.
Un’espressione fissa ed immutabile che non subisce l’umore e separa la carne da tutto. Ultimo oggetto è lo scruiazzo, un bastone intarsiato e decorato con attaccati quattro pon pon di lana colorati che verranno sventolati in faccia a chi si incontrerà per strada e che ruberanno i cappelli ai malcapitati. Un corteo ricco di suoni richiama le maschere e le conduce per incontrate le ragazze vestite a festa, col capo e il volto scoperto.

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