Carnevale a tavola, in Calabria si mangia ancora così
di Roberto De Santo
Antica di nascita e di tradizione, la cucina calabrese segue da sempre i riti e le usanze che il calendario, prima pagano e poi cristiano ha imposto. A scandire le pietanze da cucinare, i prodotti che le stagioni garantivano nelle case dei calabresi. Una regola che si è perpetrata per secoli fino ad arrivare, con qualche variante, ai giorni nostri.
Così anche per le festività carnevalesche quelle usanze di preparare specifici manicaretti in varie parti della regione sono rimaste immutate. Piatti tipici che si consumano soprattutto nell’ultimo giorno del calendario cristiano, prima della Quaresima. Ed un tempo legato ai riti magnogreci dionisiaci e a quelli dei saturnali romani.
Si tratta del martedì grasso,definito così perchéè il giorno in cui si consumavano e si consumano tutt’ora i prodotti più grassi o prelibati. In vista dell’astinenzadal cibo maggiormente pregiato –un tempo costituito dalla carne–edimposta dalla ferrea regola della Quaresima che, tra i praticanti cattolici, dal mercoledì delle ceneri prevede il digiuno. In ricordo di quello che Cristo ha portato avanti nei 40 giorni di traversata del deserto.
D’altronde il termine togliere la carne (carnem levare) darebbe il nome allo stesso Carnevale.
Nella terra tradizionalmente legata al consumo di carne di maiale e nella stagione della macellazione dei capi, per la Calabria il martedì grasso si traduce in uso abbondante dei derivati del maiale.
Prodotti che stanno alla base ad esempio della tradizionale frittata di pasta in uso sul Tirreno cosentino ed in particolare ad Amantea. Una ricetta ricca che comprende – oltre alla pasta, alle uova, e al formaggio – soprattutto la salsiccia e la cottura nelle risimoglie, il grasso derivato dalla lavorazione delle carni di maiale.
Ancor più pertinente – per terminologia – è il cosiddetto “risu d’azata”. In uso specialmente nel Lametino, è il prelibato riso al forno farcito con salsiccia fresca, salumi, salsa e provola silana. Un nome che deriva proprio dal termine gergale azata (alzare o, in senso lato astenersi dall’uso) che indicherebbe proprio la necessità di non utilizzare più dal giorno dopo quei prodotti prelibati e grassi.
E poi ci sono le frittole. È il piatto tipico calabrese, ottenuto riscaldando il grasso macinato del maiale (grossolanamente privato di carne e altre impurità), in un pentolone di rame stagnato, detto caddàra (o quadàra, a seconda del dialetto in uso sul territorio).
Senza dimenticare l’abitudine, in uso in questo periodo dell’anno, di cucinare “pruppette”, polpette rigorosamente fatte di carne di maiale e di salsa con cui si usa condire anche la pasta.
Pietanze, dunque, costituite da prodotti decisamente grassi e strettamente legati al territorio che, rappresentavano – come rappresentano – il tradizionale menù dell’ultimo giorno prima della Quaresima: tempo di purificazione. Un periodo dell’anno che rappresenterebbe anche un momento di raccoglimento e di pentimento, magari anche per quel che si sarebbe consumato nei giorni precedenti. Ma qui il condizionale è d’obbligo soprattutto a queste latitudini.
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