A tu per tu con Luigi Lepore: la Stella Michelin e un sogno chiamato Calabria
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Marzo, si sa, vedi il sole e prendi l’ombrello. C’è un posto, però, dove una stella – vera cometa per i viandanti del gusto – brilla quattro stagioni. Succede nel cielo di Lamezia Terme: qui Luigi Lepore ha portato un’idea di cucina che mette insieme l’esperienza maturata in mezzo a brigate internazionali con la tradizione locale più terrigna. Tulipani sui tavoli, poltroncine in pelle, porte a specchio che si aprono come un magico sesamo: non c’è Ali Babà dietro ma il tesoro ha un profumo che farebbe svenire tutti e quaranta i ladroni.
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A tavola da Lepore succede l’inaspettato: niente è come sembra e la vista inganna gli altri sensi. Così, l’entrée che pare un pasticcino, in realtà è un omaggio all’aperitivo all’italiana: mordi e all’improvviso crederai di bere chinotto e mangiare noccioline che, quasi quasi, viene voglia di passarti la lingua sulle labbra per togliere il sale.
Succede anche qualcosa di poetico quando al momento del dessert viene vaporizzata una pioggia di profumo che ti porta dritto in mezzo alle gelsominaie: è un’esperienza sensoriale completa, più che un dolce al cucchiaio, omaggio dello chef alle donne calabresi che raccolgono questi fiori lungo la Costa dei Gelsomini (e alla nonna che, sul balcone, aveva sempre una pianta che lo travolgeva ad ogni respiro). Ogni piatto è una suggestione, un viaggio tra bocconi e ricordi che, come gli amori più belli, fanno giri immensi e poi ritornano. A casa. È la storia di Luigi Lepore: per il mondo con un biglietto andata e ritorno per la Calabria e un sogno chiamato Stella Michelin.
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La cucina: una passione a fuoco lento o una scintilla improvvisa?
«Ho sempre avuto questa passione da piccolo: i miei lavoravano, io tornavo prima e mi mettevo ai fornelli. Però, con una madre insegnante e un padre commercialista era difficile persuadere la mia famiglia. Dopo l’università ho iniziato a lavorare ma non mi piaceva trascorrere il 95% del tempo in ufficio. E allora, a 24 anni, ho detto “basta” e iniziato a mandare il curriculum ad una lunga lista di ristoranti stellati. Mi risposero subito. Andai al “Trussardi” di Milano che mi mise con le spalle al muro: “Se resisti per un mese ti assumo e ti pago”. Era l’unico che mi aveva offerto un compenso e io non volevo iniziare chiedendo soldi a casa. Era un due stelle Michelin, una brigata di quindici persone e un clima militaresco. Fu l’inizio, tosto ma bellissimo. Però è da Valeria Piccini, in Toscana, che ho imparato tutto: ho capito cosa voleva dire fare il cuoco e compreso a fondo l’amore per la cucina. Qui mi è balenata l’idea di tornare in Calabria: faccio le ultime esperienze e lancio una cucina del genere. Così, dopo la Francia, la Spagna e Il Comandante di Napoli ho fatto il biglietto di ritorno e nel 2019 ho aperto Luigi lepore Ristorante».
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Com’è stato l’inizio ad un passo dalla pandemia?
«Complesso. Ma ho vissuto ogni chiusura come un momento di studio e approfondimento per capire i punti deboli del menu e sperimentare nuovi piatti. A ogni riapertura eravamo su uno scalino più alto e abbiamo avuto ragione perché poi nel 2022 è arrivata la stella».
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Quanto siete cresciuti?
«Tanto. Nel 2019 era davvero inimmaginabile avere dei cuochi coreani o dalle Canarie qui a Lamezia Terme. Invece è successo. Abbiamo iniziato in tre: io, un pasticciere e un maître in sala e oggi siamo in sette in cucina con due persone in sala. Mia sorella Stefania dirige l’orchestra tra i tavoli. Quando decisi di aprire un ristorante lei tornò da Milano dove si occupava di marketing: “Ti dò io una mano per iniziare”. Invece siamo ancora qua insieme».
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Materie prime: solo chilometro zero?
«In realtà la bussola è la qualità. Nella mia cucina c’è tanta Calabria ma, obiettivamente, se ritengo che un prodotto sia migliore altrove non sacrifico il benessere dei miei ospiti sull’altare del locale. Però certe cose sono imprescindibilmente calabresi: sarda salata, ‘nduja, patate, anice nero, funghi, tartufo, agrumi, pecore, trote, olio, olive, tutto questo è assolutamente calabrese».
Quali sapori raccontano i piatti?
«Raccontano la terra perché faccio tanta carne. So che affacciamo sul mare ma immagina di dare per un attimo le spalle alle spiaggia: i costoni delle nostre montagne ti trasportano nei boschi in mezzo a cinghiali e caprette con carretti e campanellini che penserai di essere in una puntata di Discovery Channel».
Intelligenza Artificiale e gastronomia: verremo travolti anche dietro ai fornelli?
«In realtà siamo andati così avanti che stiamo tornando indietro. La cucina riavvolge il nastro fino all’atmosfera della trattoria e torna alla terra e al fuoco: è la rivincita della brace sull’uso spropositato del sottovuoto. Io sono per la tecnologia nella misura in cui ti aiuta a portare la materia prima alla massima espressione. Poi ovviamente il pensiero cambia negli anni»
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Piatto preferito?
«Amo i basici: pasta al pomodoro, amatriciana, pasta olio e parmigiano».
Cosa c’è nel futuro?
«Si avvicina la nuova stagione, cerchiamo stimoli diversi per il menu. Riassumendo: di preciso niente, in generale tutto!».
Parafrasando: prima stella, a destra, questo è il cammino. Poi la strada la trovi da te. E non porta all’isola che non c’è: porta in Calabria dove i sogni possono avverarsi. “E chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, forse, è ancora più pazzo di te”! (Rachele Grandinetti)
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